Strade parallele. Immagini, momenti, individui e conflitti della San Giuseppe di ieri, oggi e domani.

Strade parallele. Immagini, momenti, individui e conflitti della San Giuseppe di ieri, oggi e domani.

 

Aveva spesso aiutato il padre a lavorare la terra. Lui era nato lì, su quel suolo che dal 1894 aveva preso il nome di San Giuseppe Vesuviano. Erano accolti in degli edifici di una vecchia masseria che si estendeva poco più in là di una sponda del Regio Lagno del paese che scendeva dal Vesuvio e attraversava il territorio di San Giuseppe, tra le campagne che confinavano con il comune di Striano. Vivevano tutti lì, vicino alla terra che lavoravano. Il padre, Gennaro, aveva avuto dalla moglie, Consiglia, otto figli. Più della metà erano morti prima di compiere pochi anni. Erano così rimasti in tre. Lui, suo fratello maggiore Pasquale e la sorella Giuseppa. Era da poco meno di un anno iniziata la guerra, e l’Italia a fine maggio aveva chiamato Pasquale al fronte. Giuseppa doveva essere maritata, ed era dura avendo poco e niente per la dote.

Purtroppo la mancanza del figlio maggiore era una grande perdita. Era qualche mese che Gennaro sacrificava al pomeriggio le braccia di Luigi, raddoppiando il suo lavoro, pur di fargli imparare il mestiere di sarto da Ntonio o’ cecato. Luigi si recava lì, tutti i pomeriggi, dalle 15 alle 20, per imparare l’imbastitura, il punto indietro, il punto sorfilo. Poi dopo i primi due mesi fu messo davanti alla macchina, solamente nelle pause o quando Ntonio doveva lasciarla per rifinire a mano. ‘E pezze. Quanto piacevano a Luigi: l’odore, il colore, la sensazione che restituivano il tatto; ma più di tutto la disciplina, la precisione, l’armonia, l’eleganza. La calma, la costruzione serena del tempo, la compagnia del silenzio. E il rumore del filo che struscia tra la trama del cotone, il rumore del pedale della macchina che rendeva la stanza asciutta e ben scandita al sole, stagliata, tra i pomeriggi di quella primavera che si apprestava ad essere una folle ed urlante sciagura al di là dei monti, sulle Alpi, sul Carso, per tutta una generazione di poveri ragazzi costretti a vedere, a vivere, la più grande e tremenda ottusa bestialità che si apprestava a riversare l’uomo.

Tra due settimane parti per “Nuova York” gli dissero. Nun starai sulo tu a papà, parti co’ ‘o figlio ‘e zia Angelina che è imparato sarto comme a te. Nun te mettere a ppaura. Ce ‘sta nu signore amico de Ntonietto ‘o cecato ca sta facenno ‘o sarto llà. Io o ssaccio ca tu nun vire l’ora ‘e te mette a faticà e ‘i te abbusca a jornata. Oramai si ommo, tieni 15 anni e ce ajutà no poco ca tenimmo a chella sora Giuseppina dda toja a spusà. Già annu chiammato a frait, si nun te ne vaje mo mo te chiammano puro a te! Je songo vecchio pe’ ffortuna e nun me chiammano, ma manco ‘a nisciuna parte pozzo ì.

La sensazione di aver lasciato le parole a casa, una cassa sorda. Di aver perso la parola sul porto, all’ora muta dell’alba. Di aver attraversato un oceano di sfumature, quanti i riflessi del sole sull’acqua, poi una tempesta di verità: scure, tortuose, che alzavano la notte contro la carena di quell’imbarcazione assegnatati per questo lungo, il più lungo, viaggio. La sfida di dover tenere il timone dritto, vincere la paura di lasciarsi in mare, tra la sua furia e una promessa pace.

Questo aveva sentito, o forse aveva sognato: un’alba nuova tra le braccia della madre. Aprì gli occhi e vide la promessa di un’opportunità. Sentì di dover parlare e prendere il suo posto di fronte a quell’urlo gioioso, la felicità dal fondo della miseria, una festa, un’eccitazione indicibile si arrampicava sui più grandi grattacieli che si estendevano ora sui propri occhi come gli orli di un immenso, sconfinato sogno: la città. Rhode Island, dottori, parole e parole di cui non capiva nulla. Poi Mulberry Street, Little Italy, la gente, lo shop, jacket, suit, dress, marrige, stich, blanket stich, garter stich, cross stich. Quanto tempo era passato? Quanto ne aveva immaginato del tempo che scorreva sulla stessa pelle, attraverso gli stessi organi, i tessuti, a portare con sé tutte le sue probabilità, ad estrarre le carte, a farle, a tutti. Tra un punto e l’altro, a tramare il tempo, ad orlare i contorni, a circoscrivere i giorni, renderli abitabili.

Poi un giorno condolences, condolences, condolence. Era tutto il giorno che gli ripetevano questa parola; e lui: thank you, thank you, thank you.

Questo sentiva, o forse aveva sognato: rinchiuso in una cassa di legno, forse viaggiava lui stesso sull’oceano. Ogni onda portava con sé una rìpida di parole, così veloci da sovrapporsi e cascare in un tumulto fervente, libero, inascoltato. Al di là del mare, sui monti.

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