25 aprile 1945/2014: il dovere di ricordare

aprile 25, 2014

Laboratorio Pubblico

25 aprileDa LP n12 proponiamo in occasione della Festa della Liberazione l’articolo di Ciro Raia

25 Aprile 1945/2014: il dovere di ricordare

collettivo vocenueva

Sono stato bambino, in una realtà di provincia, in un’età in cui il 25 aprile segnava – sì – la festa ma intesa come coesione, come incontro della comunità, come riflessione su quanto accaduto ed occasione di proposte per parlare del futuro e di come migliorarlo. In prossimità di questa ricorrenza civile sapevo che stavo per vivere una  giornata di intense emozioni. Sui balconi delle sezioni del PSI e del PCI avrebbero garrito la bandiera italiana e quella rossa di partito. I compagni avrebbero diffuso le copie dell’Avanti! e dell’Unità, che riportavano – sempre – le tappe di avvicinamento al 25 aprile del 1945 attraverso i ricordi di Sandro Pertini e Riccardo Lombardi, Luigi Longo e Umberto Terracini.

Le facce dei nostri padri, allora, erano contrite in una smorfia dura di ricordi: si incontravano e rivedevano in retrospettiva i luoghi delle sofferenze, le purghe del fascismo, i patimenti delle trincee o dei campi di prigionia, la lunga e tormentata strada del ritorno a casa. Anche le nostre madri ricordavano la guerra che avevano vissuto senz’armi, i bombardamenti, la fame, i cuori accelerati dalla paura, i tedeschi inferociti in ritirata, i beni perduti, il lutto che aveva segnato l’anima e la testa. Ma noi eravamo bambini, che ne sapevamo di quello che era successo prima di quel fatidico 25 aprile? Che ne capivamo se qualcuno ancora diceva che “ai tempi del fascismo si stava bene”? “che Mussolini era stato tradito dal re”? Ignoravamo anche che, il 10 giugno del 1940, all’annuncio dell’entrata in guerra dell’Italia, nelle piazze dei nostri paesi c’erano state scene di festa, cappelli lanciati al cielo, abbracci per celebrare la grandezza della nazione! Per noi il 25 aprile viveva, ormai, solo nelle parole di qualche partigiano, che aveva combattuto nelle Brigate Garibaldi o sulle montagne della Valtellina nelle file di “Giustizia e Libertà”. Per noi il 25 aprile era nei ricordi di quanti dalle nostre parti, un anno e mezzo prima della liberazione, avevano organizzato la resistenza ai tedeschi in fuga, affidando la propria sorte al  destino, ai santi o alle madonne.

Poi, giunse il tempo in cui i ricordi si confusero, le facciate dei palazzi -prima annerite dal fuoco appiccato da resti della divisione Goering in ritirata- si colorarono di nuova luce, le lapidi stinte rinnovarono solo i nomi dei martiri; tutto divenne solo festa della Liberazione. A scuola ci insegnarono che “l’Italia è una Repubblica democratica” e che “la sovranità emana dal popolo ed è esercitata nelle forme e nei limiti della Costituzione e delle leggi”. Ci dissero delle folle oceaniche che si erano riversate, nei giorni della Liberazione, nelle strade delle grandi città come nei piccoli centri. Ma cosa era successo a Castiglione di Sicilia, a Marzabotto, a Sant’Anna di Stazzema, a Pietransieri, a Boves? E, più vicino a noi, oltre le “Quattro Giornate”, cosa era avvenuto a Caiazzo, a Teverola, a Nola, ad Acerra? Non lo sapevamo. E quale era stato il significato della repubblica partigiana di Montefiorino? Anche questo ignoravamo; come ignoravamo il contributo dato dalle donne alla lotta partigiana, perché ci erano completamente estranei, per esempio, i nomi di Gabriella Degli Espositi o di Irma Marchiani. Fummo, così, costretti a far sfumare un pezzo di storia che la scuola non ci insegnava più e che i vecchi partiti politici avevano smesso di raccontare mentre i nuovi partiti politici –non avendo una propria storia- non sapevano proprio raccontare. Così, un po’ dappertutto, la data in rosso dell’anniversario della Liberazione cominciò a celebrarsi in brevi ed esangui cortei per la deposizione di corone sui monumenti ai morti di tutte le guerre, in scarne  manifestazioni di partito (specie in tempi di elezioni), nella ripetitiva esposizione di labari di enti ed associazioni di reduci sempre meno numerosi.

Intanto a Napoli, a pochi chilometri dalla realtà di provincia in cui ero nato, alcune iniziative della stagione da sindaco di Maurizio Valenzi coincidevano con le ultime attività di “Paese Sera”. Si era nel 1983: ero cresciuto ed insieme a molti altri avevo volontariamente scelto di educare le giovani generazioni. Fu, anche allora, manco a farla apposta, un partigiano, Gennaro Pinto, a volere inserire, infatti, in “Caro Anno ’83” –una manifestazione riservata alle scuole e sostenuta anche dall’amministrazione comunale di Napoli- tutto lo spazio possibile ai  protagonisti della Liberazione. Nelle scuole furono attori proprio i combattenti napoletani per la libertà, alcuni dei quali rispondevano ai nomi di Mario Palermo, Gaspare Papa, Ugo Piscopo, Ettore Bonavolta. L’11 aprile di quell’indimenticabile 1983, nella platea del maestoso cinema  Metropolitan (non ancora frazionato in multisala), centinaia di ragazzi, in un’atmosfera di grande emozione, dopo la proiezione de “Le quattro giornate di Napoli”, si schiusero all’abbraccio con il regista Nanni Loy ed il sindaco Valenzi. Poco lontano al Quirinale, il presidente partigiano, Sandro Pertini, riceveva innumerevoli scolaresche e con tutti riproponeva i nomi, le vicende, le condizioni che avevano consegnato l’Italia libera al popolo.

Passò, poi, la stagione delle speranze e degli entusiasmi. Si avvicinò la stagione che avrebbe decretato la fine dei partiti. Diventò difficile invitare anche qualche oratore “politico” per celebrare il 25 aprile. Sopravvisse quella data solo grazie all’esistenza dell’Istituto Campano per la Storia della Resistenza e di qualche vecchio (o anche giovane) nostalgico. Nelle scuole più che in altri settori, si tentò di cancellare il 25 aprile. La mania del revisionismo divenne pratica quotidiana, molti libri di storia non ne furono esenti: la Resistenza fu guerra civile, i partigiani erano crudeli assassini, i loro crimini gridano ancora vendetta. Berlusconi si consentì anche l’impudenza di raccontare che non era affatto vero che gli antifascisti erano stati mandati in esilio da Mussolini; erano stati mandati semplicemente in villeggiatura. Qualcuno dovette anche crederci. Ognuno diceva e faceva qualcosa di diverso. Bossi invitava i suoi padani a non riconoscere la Repubblica, Fini chiedeva scusa agli Ebrei ma non partecipava alle celebrazioni pubbliche per la Liberazione; lo stesso Berlusconi, da presidente del consiglio dei ministri, bucò ogni appuntamento per commemorare la data del 25 aprile, preferendo riposarsi al sole della Sardegna o nel rifugio di Arcore. Furono quotidianamente calpestate le idee e le azioni di Feruccio Parri o di Piero Calamandrei. Ma chi se ne accorse? Il richiamo dei reality show fu più potente di ogni nobile passato.

E questa non è storia antica, è storia di oggi. E’ una storia che si scrive giorno per giorno, nelle grandi città e nelle piccole realtà di provincia. Cos’è il 25 aprile? Cosa ha significato per l’Italia? Cos’è stata la Resistenza. A parlare di quei giorni, in Italia, e a difenderne i valori, sono rimasti in pochi, specie dopo che se ne sono andati uomini come Aldo Aniasi o Gaetano Arfè, Vittorio Foa o Carlo Levi. In molte scuole, poi, si sa che il 25 aprile, quest’anno, cadrà di venerdì, l’ideale per un allungare il fine settimana. Solo nei luoghi delle stragi naziste o sulle lapidi che ne perpetuano il ricordo qualcuno volgerà un pensiero a Gennaro Capuozzo o Adolfo Pansini, a Lenuccia Cerasuolo o Armando Salvati, alcuni fra i protagonisti nei combattimenti delle quattro giornate a Napoli, preludio alla lotta di liberazione nazionale.

Ora che mi son fatto di una certa età, vivo sempre in una realtà di provincia, ma passo la mia giornata nella città. Chiedo in giro, parlo, ascolto: il 25 aprile è caduto in disuso! Anzi, molti ne ignorano l’essenza e la ragione della celebrazione. E’ sempre più pressante, perciò, il dovere di ricordare e far ricordare, di raccontare ciò che successe e la strada che prese la storia dell’Italia repubblicana, di far quadrato intorno alla carta costituzionale ed ai principi che ne consacrano i valori di democrazia e di antifascismo. Solo così potrà avere di nuovo senso la data del 25 aprile; solo così potranno avere significato di testamento le parole scritte sui certificati rilasciati ai partigiani, che riuscirono a tornare alle loro case. Come quello che aveva in tasca il partigiano Nino –un mio amico scomparso da tempo-, contrassegnato dal n. 220152 e nel quale si riconosceva che “nell’Italia rinata, i possessori di questo attestato saranno acclamati come patrioti che hanno combattuto per l’onore e la libertà e col loro coraggio e la loro dedizione hanno contribuito alla liberazione dell’Italia e alla grande causa di tutti gli uomini liberi”.

 

                                                        Ciro Raia

 

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