Per un primo maggio dalla parte dei diritti. I “nuovi schiavi” fra speranza e caporalato.

Lavorare in campagna per 15 euro al giorno. 
La storia dei “nuovi schiavi” tra speranza e caporalato.

(tratto da LP n.17)

i nuovi schiavi

Adewale si sveglia alle 5:30 nella sua casa del Rione Boccia. Giunto in cucina, dà un’occhiata al calendario appeso al muro: 29 Agosto. Il sole dalla finestra gli lascia intendere che oggi fa ancora più caldo degli altri giorni. Per un istante gli sembra di essere ritornato a Lagos, nella sua Nigeria. Solo per un istante, perché lì non è solo il calore a rendere l’aria irrespirabile, ma soprattutto il tributo quotidiano di polvere e sangue del suo popolo, gli Ogoni. Il toc toc alla porta gli evita il riaffiorare di immagini che costantemente passeggiano nei suoi incubi notturni. Sull’uscio di casa c’è Lilian che, come ogni mattina, partendo da via delle Rose, si ferma lì ad aspettarlo per fare insieme i restanti 800-900 metri verso la Piazza. E come ogni mattina gli parla di Michelle, che avrebbe dovuto prendere in moglie laggiù, in Ruanda, prima che gli Hutu e i Tutsi si mettessero a fare una guerra infinita e a seppellire ogni tipo di progetto futuro. Lilian e Adewale si conoscono da quasi 20 anni. Sono partiti verso l’Europa insieme, con un barcone di fortuna e 150 persone. Erano insieme quando sono arrivati in 50 al CPT (Centro di Permanenza Temporanea, ndr) di Lampedusa. Al bar all’angolo della piazza incontrano il liberiano Musslie. L’altro giorno raccontava a Lilian e Adewale della sua esperienza a Rosarno, nel Gennaio del 2010, quando stanco di vivere in una capanna nell’agrumeto in cui lavorava insieme ad altri 30 immigrati, stanco di esser il bersaglio dei proiettili di gomma di alcuni cittadini frustrati e, soprattutto, stanco di nutrirsi delle sole arance che coltivava per 15 euro al giorno, decise di riversare la propria rabbia in strada insieme ai suoi compagni di sventura. “Solo arance”- ripeteva – “Solo arance”.

Fine agosto, è il periodo della raccolta delle nocciole nelle campagne di Poggiomarino, Terzigno e San Giuseppe. Una volta la raccolta era attività di tipo quasi familiare. I nonni portavano i nipoti in campagna, poi le nocciole raccolte, dopo la fase di essiccazione al sole, venivano cedute ai mediatori che si sarebbero occupati di rivenderle alle aziende per la trasformazione. Oggi, invece, molti dei fondi coltivati a nocciole non ci sono più. Al loro posto fabbricati, quasi sempre abusivi. I vecchi non hanno più l’età per le fatiche della campagna. I figli sono la prima generazione di una società post-agricola che ha fatto dell’impresa tessile la principale attività economica e i nipoti, oggi adolescenti o adulti, appartengono ad un’epoca diversa, un paese diverso. Così la raccolta delle nocciole è (ri)diventata soltanto attività lavorativa, che occupa molti immigrati: un lavoro sfruttato e sottopagato. Ore di lavoro incalcolabili per un sistema che è stato definito “agromafia”. Indagini recenti hanno portato alla luce alcune situazioni aberranti in cui l’immigrato si trova a pagare 5 euro per il trasporto in campagna, 3,5 euro per un panino e 1,5 per una bottiglia d’acqua. Il tutto decurtato dal salario, circa 15-20 euro giornalieri. L’agricoltura è un settore in cui la manodopera scarseggia e i controlli sono limitati. Un settore in cui si è permesso alle organizzazioni mafiose di estendere la loro rete attraverso il caporalato.

Nel Meridione d’Italia, come ai piedi del Vesuvio, le campagne sono diventate, da fonte di sostegno e sopravvivenza familiare, campo libero per l’illegalità. E così gli immigrati, spesso senza documenti e senza possibilità di regolarizzazione, diventano facilmente ricattabili. Oppure vengono usati come spauracchio populista, additati da politici opportunisti locali e nazionali come l’origine di tutti mali (il degrado, la crisi economica). La disoccupazione, come sempre nella storia, crea guerra fra poveri. E così gli immigrati diventano coloro i quali “rubano il lavoro”, come se qualcuno davvero fosse disponibile a fare il lavoro di Adewale, Lilian e Musslie, 15 ore sotto al sole per 15 euro al giorno.

L’azione dello Stato, al momento, si esaurisce in una legge sul caporalato che non risolve il problema, perché l’intero impianto normativo funziona poco o male. La legge Bossi-Fini, oramai comunemente considerata una inutile e dannosa, parte dall’irrealizzabile: solo chi ha un contratto di lavoro può entrare in Italia regolarmente. Ma dalla Nigeria, dal Ruanda, dalla Liberia, così come dalla Libia e da tutto il Magreb, non si comprende come si possa trovare un lavoro prima di arrivare sul suolo italiano. Così molti immigrati giungono come irregolari e, come tali, diventano ricattabili. Per questo hanno paura di denunciare gli sfruttatori, esponendosi al rischio di essere allontanati dalla loro unica fonte di sostentamento e dal Paese dove, nel bene o nel male, stanno provando a ricostruire una dignità. Nonostante i continui moniti da parte di organizzazioni come Amnesty International, la legge su immigrazione e caporalato in Italia non è cambiata, anche se le pene per i caporali sono state inasprite. Purtroppo, però, i caporali sono solo una parte della catena di illegalità, perché al servizio degli imprenditori agricoli, spesso veri responsabili dello sfruttamento.

Stare dalla parte di Adewale, Lilian o Musslie diventa un obbligo morale. Stare dalla parte dei diritti, di chi lavora e di chi valorizza la terra, dalla parte di quegli imprenditori che sanno rispettare il prodotto, l’ambiente, così come la dignità umana. In un settore, quello primario, che in parte sembra aver compreso le storture causate dal mercato negli ultimi decenni: produzioni intensive, uso di pesticidi, ricerca del prezzo più basso. Una deriva che ha impoverito i contadini e chi faceva impresa, mentre toglieva dignità ai “nuovi schiavi” venuti dall’Africa e desertificava le campagne. Stare dalla parte delle persone oneste e della terra è un percorso obbligato nel processo di trasformazione della società.

 

(tratto da LP n.17 – scaricalo qui)

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