Liberazione Vesuviana: il 25 aprile raccontato dalla penna di un testimone

aprile 24, 2013

Cultura

I miei ricordi del 25 aprile, giornata dell’insurrezione popolare e della liberazione del paese dal nazifascismo, sono strettamente legati alle Quattro Giornate di Napoli e in particolare al loro svolgimento a Ponticelli, il quartiere dove sono nato, che sino al 1926 era un comune autonomo. All’avvento del fascismo il comune era governato da un sindaco socialista, il dottor Cirillo, funzionario delle Ferrovie dello Stato, che fu subito allontanato. Nello stesso anno il fascismo sciolse i consigli dei comuni che circondavano la città e anche i circondari, istituzione murattiana con la quale erano organizzati tutti i territori del Regno delle due Sicilie. Dopo l’armistizio dell’8 settembre, in prefettura con i pieni poteri si insediò il colonnello Scholl il quale emanò un proclama che invitava i giovani a presentarsi nei luoghi deputati per essere inviati in Germania. Così ebbe inizio la resistenza ai nazisti per non essere deportati. Essa fu dapprima pacifica, poi armata, sfociando nelle Quattro Giornate e  liberando la città dai tedeschi prima dell’arrivo delle  armate anglo-americane.

La mia famiglia abitava in via Ottaviano, una strada  che collega Ponticelli a Cercola. A Ponticelli c’era no già stati scontri con i tedeschi e alcuni resistenti erano stati fatti prigionieri. Consigliati dai fascisti, i nazisti evitarono di entrare nel quartiere. Un’unica  volta ci provarono, ma furono respinti con le armi.

I patrioti erano capeggiati dal capitano Caso, uno sfollato che abitava nella villa Masseria Visconti.  Al proclama risposero pochissimi giovani, così  iniziarono le retate. In via Ottaviano un’unica retata  sorprese dieci giovani, gli altri tentativi andarono  deserti.

A metà settembre, con lo sbarco delle truppe  alleate a Salerno, si aggravò lo scontro con i  tedeschi, che cominciavano a ritirarsi per attestare  la difesa lungo il Volturno, dove c’erano già due divisioni corazzate. Avevo circa sedici anni quando

il 22 settembre l’ultimo reggimento della divisione Goering di tedeschi si acquartierò in via Censi dell’Arco, uno stradone lungo la ferrovia circumvesuviana. Il 29 mattina andarono a razziare animali da macello nella masseria Morabito, dove sono nato e ho vissuto sino al 1938 con la mia famiglia e quella dei nonni paterni. All’uscita dalla masseria furono accolti dal fuoco incrociato dei patrioti. Negli scontri morirono due partigiani e due tedeschi. Per rappresaglia i nazisti arrivarono con autoblindo e carri armati e diedero vita ad una strage di inaudita violenza. Furono trucidate 38 persone, fra cui anche quattro ragazzi tra i tredici e i quattordici anni. Tutti i cortili lungo la strada avevano cancelli  che davano accesso alla campagna. Entravano

nelle case e chiunque trovassero veniva trascinato in campagna e fatto fuori con un colpo alla nuca. Il mio palazzo aveva la soffitta dove, per sfuggire alle retate, si erano nascosti cinque giovani. I tedeschi mi acciuffarono e mi chiesero se c’era qualcuno nella soffitta. La risposta pur titubante e impaurita fu negativa. Poi mi costrinsero a prendere una scala, con la quale salirono a ispezionare e trovarono materassi, piatti e vettovaglie. I cinque giovani riuscirono a fuggire e a salvarsi. Uno dei soldati mi afferrò e mi stava portando verso la campagna per vfarmi fuori, quando arrivò un ufficiale, credo un suo superiore, che lo intrattenne per qualche istante. Con prontezza di riflessi, approfittai di quell’attimo di distrazione e scappai con tutte le forze che avevo. La sventagliata di mitra fu assorbita da tre

enormi alberi di nespole. Fuggendo per le campagne, notai i corpi di tre persone amiche, tutte con il volto nel solco e un coagulo di sangue dietro la nuca. Vagai senza meta per ore nella campagna e a sera mi nascosi nel deposito di Raffaele “‘O cantiniere”, il cui figlio Michele frequentava la scuola media con me. Per lo spavento mi venne una febbre da cavallo. Il 25 aprile lo festeggiai nella fabbrica dove lavoravo da un mese. Il direttore era il padre di Massimo Caprara, segretario di Togliatti, un democratico vero e il vice era Gino Bertoli, un ingegnere triesti

no che aveva trascorso alcuni anni in carcere per reati politici e alla liberazione era rimasto a Napoli. Sarà prima consigliere comunale e poi senatore

eletto nelle file del Pci nell’Italia repubblicana. A sera vi fu grande festa nel quartiere con corteo e banda musicale per le strade, noi intonavamo “Bandiera Rossa” e l’inno nazionale.

Dopo la liberazione nella mia mente si accavallavano contrastanti stati d’animo. Da un lato la gioia per la liberazione del Paese e per il contributo dato dai partigiani all’insurrezione nazionale, dall’altro tutto il vissuto dei cinque anni di guerra, le bombe, i bombardamenti, i ricoveri, la fame, le carte annonarie, le razioni di pane di 150 grammi al giorno e la morte di un mio fratellino, Peppino, per denutrizione. Comunque, lo stato d’animo prevalente era positivo: il paese era libero, la guerra era finitainiziava una nuova vita. Si incominciò a parlare di costruire un’Europa unita senza più guerre. Il Vec-chio Continente era stato a lungo senza pace, il più

guerrafondaio del pianeta: aveva subìto guerre di espansione, economiche e di religione.

Dal 25 aprile 1945 molte cose sono avvenute, noi italiani da sudditi siamo diventati cittadini. Il paesesi è sviluppato, ma non tutte le speranze si sono realizzate e molte aspettative sono andate deluse. Da alcuni anni il paese attraversa la crisi economica e politica più grave dal dopoguerra. La nostra classe dirigente degli ultimi vent’anni, di destra, centro e sinistra, ha fallito. Il Paese ha bisogno di

uscire da queste gravi difficoltà. L’augurio di un ottantaquattrenne che ha speso 70 anni della sua vita in politica è che, al più presto possibile, si dia al paese una guida che abbia l’obiettivo di costruire un’Europa dei popoli che possa competere al

meglio sul mercato mondiale globalizzato.

Aniello Borrelli

Tratto da LP Laboratorio Pubblico n II Aprile

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